Chrome in manette: la Corte d’Appello di San Francisco riapre la class action sulla privacy di Google!
Google nel mirino della giustizia: utenti Chrome accusano l’azienda
Il colosso tecnologico Google, noto per i suoi prodotti innovativi, è nuovamente sotto i riflettori legali negli Stati Uniti.
Recentemente, un gruppo di utenti di Google Chrome ha avviato una causa sostenendo che l’azienda ha raccolto le loro informazioni personali senza il dovuto consenso.
Questa accusa è emersa dopo che gli utenti hanno esplicitamente selezionato l’opzione di non sincronizzare i loro browser con i loro account Google.
Decisione della Corte d’Appello: il valore del consenso
La Corte d’Appello del 9° circuito Usa di San Francisco ha messo in discussione l’operato di un giudice di grado inferiore, il quale aveva precedentemente rigettato l’ipotesi di azione collettiva.
I magistrati, con una decisione unanime di 3 a 0, hanno sottolineato l’importanza di valutare se un utente ragionevole di Chrome avesse dato il consenso alla raccolta dei dati durante la navigazione.
Questa sentenza arriva dopo un accordo dell’anno scorso in cui Google ha distrutto miliardi di dati per risolvere un’altra causa legale riguardante il monitoraggio degli utenti nel loro tentativo di navigare in modo privato, anche in modalità “Incognito”.
Google, in risposta a tali sviluppi, ha espresso il proprio dissenso: “Non concordiamo con la sentenza e riteniamo che i fatti dimostrino la nostra correttezza.”
La società ha anche ribadito l’utilità di Chrome Sync, descrivendolo come uno strumento essenziale che offre agli utenti un’esperienza fluida e senza intoppi su diversi dispositivi, assicurando nel contempo la trasparenza riguardo ai controlli sulla privacy.
La class action e il rispetto della privacy
In merito alla class action avviata, l’avvocato dei querelanti, Matthew Wessler, ha espresso soddisfazione per la decisione della Corte, dichiarando con entusiasmo di attendere il processo.
La causa riguarda specificamente gli utenti di Chrome che dal 27 luglio 2016 non hanno mai attivato la sincronizzazione dei browser con i loro account Google.
Essi sostengono che Google avrebbe dovuto attenersi alla propria informativa sulla privacy, la quale afferma che non è richiesto fornire informazioni personali per l’uso di Chrome e che i dati non sarebbero stati raccolti se non fosse stata attivata la sincronizzazione.
Il giudice Milan Smith ha evidenziato che l’interpretazione della politica sulla privacy di Google non considerava adeguatamente la percezione degli utenti.
Ha enfatizzato che un utente ragionevole non avrebbe necessariamente compreso di acconsentire alla raccolta dei dati, nonostante l’informativa generale della privacy di Google.